
NAZIONALE A 360°: IL POST-MONDIALE, MANCINI E LA GESTIONE GIOVANI, GLI ORIUNDI, LE CRITICHE
È terminata una delle poche pause riservate alle nazionali stabilite a calendario per questa stagione, la prima dopo l’amarissimo Mondiale in Qatar in cui la Nazionale italiana di calcio non ha partecipato, soprattutto perché a luglio 2021 a Wembley siamo diventati campioni d’Europa sconfiggendo l’Inghilterra, vittoria ancora che risuona nei nostri ricordi ma che è stata spazzata via dalla delusione della fatale sconfitta con la Macedonia del Nord nei playoff pre-Mondiale. Il commissario tecnico Roberto Mancini è rimasto comunque in cabina di comando della selezione azzurra, promettendo di raggiungere il mondiale americano del 2026.
In questa sosta ci sono state tante discussioni, soprattutto per alcune dichiarazioni del c.t. in conferenza stampa, relative alle convocazioni e ai risultati, che in un contesto normale sarebbero pure accettabili, dato che una sconfitta contro la più pronta compagine inglese e una vittoria con Malta come resoconto delle due partite giocate non fa gridare allo scandalo, ma il flusso di eventi a cui si è arrivati ha aperto di nuovo tante discussioni. Una tra tutte ha riguardato la convocazione di Mateo Retegui, attaccante classe ‘99 italo-argentino del Tigre in prestito dal Boca Juniors, il quale alla prima convocazione risponde con 2 gol in 2 partite. Il fatto che sia un giocatore argentino, convocato per la prima volta da Mancini, ha suscitato polemiche tra gli addetti ai lavori e tra i tifosi per il fatto che è stato catapultato nell’ambiente azzurro come se fosse stato acquistato e non perché realmente italiano. Retegui non è né il primo oriundo né l’ultimo: nell’Under 21 è stato convocato anche Bruno Zapelli, anch’egli argentino e arruolato tra gli Azzurrini. Insomma, ce ne sono stati e ce ne saranno altri di oriundi, anche già dalle prossime convocazioni, come dichiarato dallo stesso Mancini in conferenza.
L’assenza di attaccanti al 100% a disposizione del c.t. ha portato a questa scelta, che Mancini ha paragonato al modo con cui le altre selezioni ottengono giocatori provenienti da altre nazioni e naturalizzandoli per poter giocare. Con questa scelta strategica si potrà cogliere una opportunità importante di allargare il pacchetto talenti a sua disposizione, ma non scordiamoci di giovani di talento italiani che già fanno vedere di avere la giusta stoffa per giocare in Nazionale maggiore come Colombo, Udogie, Fagioli, Miretti (seppur infortunatosi) che sono stati convocati in questa sosta nell’Under 21 dal mister Nicolato, solo per citarne alcuni.
La discussione si amplia con il leitmotiv che riecheggia ininterrottamente tra tutte le opinioni riguardo la selezione azzurra: abbiamo pochi giovani di talento e questi non si sfruttano. Ciò è evidente agli occhi di tutti se si pensa che la quota di italiani che gioca all’interno delle squadre di Serie A, a parte delle eccezioni, è molto bassa; questo fenomeno si sta pericolosamente allargando anche ai settori giovanili, dove le squadre Primavera di Serie A sono costellate da molti giovani stranieri, togliendo spazio ai potenziali talenti nati nel territorio italiano. Qua il problema si può spiegare in due modi: o non c’è più potenziale tra i ragazzi italiani di poter diventare campioni, oppure alle società italiane interessa quasi esclusivamente il risultato e non hanno il coraggio di buttare nella mischia i più promettenti giocatori delle rispettive giovanili. Sempre tornando a parlare di Mancini, fa specie la dichiarazione di elogio fatta a Pafundi, attaccante 17enne in forza all’Udinese, in risposta alla sua convocazione in questa sosta e poi il suo conseguente e incoerente non utilizzo, forse per mancata audacia o perché non ritenuto ancora pronto.
Le parole e la gestione attuale di Mancini fanno discutere perché derivante da un Europeo trionfante, anche sotto il punto di vista del gioco espresso, il quale ha sparato le aspettative alle stelle, per poi farle scendere in picchiata con una debacle clamorosa con la Macedonia dove, successivamente alla mancata partecipazione al Mondiale qatariota, si pensava che tutti fossero da mandare a casa. Ma la prospettiva di poter convocare giocatori nuovi e unirli ai ragazzi talentuosi nostrani, che ci sono e non sono pochi, potrebbe costruire una Nazionale solida e vincente nel futuro, per poter far gioire tutti gli italiani nelle prossime competizioni, come in quel recente, ma anche passato, 11 luglio 2021 a Wembley. Mancini ha sì la grossa responsabilità di portare risultati ma anche la grande sfida di rilanciare definitivamente l’Italia, rimettendo a tacere le critiche, per certi versi esagerate e dettate da miopia, tipica dei tifosi e degli addetti ai lavori.
di Marco Munari
MULTIPROPRIETA’: LA UEFA DI FRONTE AD UN BIVIO
La cessione del Manchester United è uno degli eventi più chiacchierati del momento per quel che concerne le questioni extra-campo. L’enorme eco mediatico che la faccenda ha raggiunto a livello globale può essere ricollegato sia ai nomi che vengono accostati al club come possibili acquirenti, tra cui Al Thani e Ratcliff, sia alla storia ed all’importanza che il club conserva, a prescindere dai risultati sportivi (ultima Champions League vinta nel 2008, ultima Premier League nel 2013 ed ultima Europa League nel 2017). Come prescindono dai risultati anche il brand ed il fatturato, secondo La Repubblica nel 2022 il quarto al mondo per la cifra di 688,6 milioni di euro.
Ma è proprio la prima di queste ragioni, cioè i nomi che sono stati proposti come in lizza per l’acquisto del club, ad aver nuovamente sollevato una questione che ha riguardato e riguarda il calcio mondiale ed europeo, toccando da vicino anche il nostro paese: la multiproprietà. Ratcliff è infatti il maggior azionista del colosso petrolchimico Ineos, che controlla il Nizza in Ligue 1 ed il Losanna in Svizzera. Al Thani è invece il presidente della Qatar Investment Bank e figlio dell’ex- primo ministro del Paese: nel suo caso bisogna sottolineare come in Qatar non sia praticamente possibile che due fondi si muovano in maniera autonoma, o meglio senza che l’Emiro e il presidente del Paris St. Germain Nasser Al-Khelaifi siano d’accordo. Nel caso in cui vincesse l’offerta del secondo quindi due delle più grandi squadre europee, PSG e Manchester United, sarebbero collegate al Qatar.
Ma perché si pone questo problema nonostante l’articolo 5 del regolamento della UEFA neghi questa possibilità affermando che “nessun club che partecipi ad una competizione Uefa per club può direttamente o indirettamente detenere o negoziare titoli o azioni di qualsiasi altro club che vi partecipi, e nessuna persona fisica o giuridica può avere un’influenza determinante su più di un club che partecipi a una competizione Uefa”? O meglio, perché si sente il bisogno di una nuova regola nonostante ve ne sia già una abbastanza chiara che non permette la multiproprietà?
È innanzitutto necessario distinguere i numerosi casi di multiproprietà che si sono potuti osservare negli ultimi anni. Ad esempio quando il gruppo Suning possedeva sia l’Inter che lo Jiangsu nella Superlega cinese, le possibilità di un incrocio sul campo erano praticamente nulle: questo tipo di multiproprietà non sembrava porre particolari problemi. Così come non sembrano porre particolari problemi ad oggi né le multiproprietà del fondo americano 777 Partners (Genoa, Hertha Berlino in Germania, Standard Liegi in Belgio, Red Star in Francia, Vasco da Gama in Brasile, Melbourne Victory in Australia) né quelle del City Group (Palermo, Manchester City in Inghilterra, New York City negli Usa, Torque in Uruguay, Melbourne City in Australia, Girona in Spagna, Mumbai City in India, Lommel in Belgio e Troyes in Francia). In questo caso però il condizionale è d’obbligo: chi può escludere che una di queste squadre, ad esempio il Palermo, non possa un giorno ambire alla qualificazione in Champions League, dove potrebbe incontrare il Manchester City? La possibilità (ed il problema che ne deriverebbe), nonostante appaia oggi assai remota, merita comunque di essere affrontata. Soprattutto per evitare il ripetersi dell’imbarazzo creatisi nel 2018 quando Lipsia e Salisburgo, entrambe chiaramente riconducibili al gruppo Red Bull, furono sorteggiate nello stesso girone di Europa League, confrontandosi per ben due volte.
È bene anche ricordare i casi che ci hanno riguardato e che ci riguardano tutt’ora da vicino. In Italia è attualmente in vigore una proroga che rimanda alla stagione 2028/29 il divieto di avere due club professionistici, permettendo così a De Laurentiis di conservare la multiproprietà di Napoli e Bari ed a Setti quella di Verona e Mantova. Il patron della Lazio Lotito invece, con la promozione nella massima serie della Salernitana, si è visto costretto a cederla a Iervolino.
Secondo il Cies, centro studi svizzero sul calcio, le situazioni di multiproprietà nel calcio sarebbero ormai circa 200. Tutta questa situazione è enfatizzata dal crescente interesse dei fondi della finanza mondiale. Esistono infatti numerosi club di diversi paesi che hanno gli stessi azionisti, i quali però rimangono di minoranza e per questo sfuggono a qualsiasi controllo.
Questo fenomeno appare in continua crescita, facendo emergere in molti addetti ai lavori e non dubbi dal punto di vista sportivo. Molti percepiscono infatti come concreto il rischio che campionati e coppe siano falsati da fenomeni di multiproprietà. Per questo la UEFA è chiamata a una scelta, nella quale ai due estremi si collocano il rafforzamento dell’attuale articolo 5 (negando quindi la legittimità della multiproprietà), oppure regolamentare il fenomeno accettandolo, vista la quantità di denaro che i fondi della finanza mondiale ed i vari Ratcliffe ed Al Thani potrebbero portare al movimento. Ed il presidente della UEFA Ceferin sembra sia seriamente prendendo in considerazione l’idea di cambiare la regola. In un’intervista concessa a Gary Neville, parlando dell’argomento, avrebbe chiesto conferma a quest’ultimo del fatto che nessun allenatore e nessun giocatore accetterebbe il diktat presidenziale di perdere la partita perché alla multiproprietà conviene così (La Repubblica), forse banalizzando un po’ troppo la questione, che invece è più che mai delicata e cruciale.
di Rodolfo Bianchini